Sentenza n. 247 del 2022

per g, c. di Nomos

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 125, comma 3, 191 e 352 del codice di procedura penale promossi dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, con tre ordinanze del 19 ottobre 2021, iscritte, rispettivamente, ai numeri 16, 17 e 18 del registro ordinanze 2022 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 ottobre 2022 il Giudice relatore Franco Modugno;

deliberato nella camera di consiglio del 17 ottobre 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con tre ordinanze, di tenore in larga parte analogo, emesse nell’ambito di distinti giudizi il 19 ottobre 2021 e iscritte ai numeri 16, 17 e 18 del registro ordinanze 2022, il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, terzo (recte: secondo) comma, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente – non prevede l’inutilizzabilità degli esiti probatori delle perquisizioni e delle ispezioni, domiciliari e personali, compiute dalla polizia giudiziaria fuori dei casi previsti dalla legge, compresi, fra tali esiti, anche il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato e la possibilità di deporre sui predetti atti e sui loro risultati. Nelle ordinanze iscritte ai numeri 17 e 18 r. o. del 2022, il giudice a quo lamenta, altresì, che l’inutilizzabilità non colpisca anche gli esiti probatori delle perquisizioni e delle ispezioni operate dalla polizia giudiziaria, fuori del caso di flagranza di reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzate o convalidate dal pubblico ministero, ovvero – secondo la sola ordinanza iscritta al n. 18 r. o. del 2022 – convalidate dal pubblico ministero senza indicare gli elementi utilizzabili che le legittimavano, o – secondo la sola ordinanza iscritta al n. 17 r. o. del 2022 – non convalidate dal pubblico ministero per qualsiasi ragione.

Le ordinanze iscritte ai numeri 16 e 18 r. o. del 2022 sollevano, inoltre, questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 13, 14 e 111, sesto comma, Cost., dell’art. 352 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto di convalida della perquisizione debba essere motivato; nonché dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che la nullità del decreto di convalida della perquisizione sia assoluta e rientri tra quelle considerate dall’art. 179, comma 2, cod. proc. pen.

Con l’ordinanza iscritta al n. 17 r. o. del 2022 vengono, invece, sollevate questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 13 e 14 Cost., del solo art. 352 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui il pubblico ministero non convalidi la perquisizione nei termini di legge, tutti i risultati probatori della stessa divengano inutilizzabili, «anche in termini di “inutilizzabilità derivata”».

1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito di processi per furto in abitazione (ordinanza iscritta al n. 16 r. o. del 2022) e per reati in materia di stupefacenti (ordinanze iscritte ai numeri r. o. 17 e 18 del 2022), nei quali la prova principale o esclusiva dei fatti è costituita dal sequestro del corpo del reato e di cose pertinenti al reato rinvenuti presso l’abitazione degli imputati a seguito di perquisizioni eseguite dalla polizia giudiziaria: perquisizioni che il rimettente reputa abusive, in quanto operate fuori dei casi indicati dalla legge.

In base agli artt. 13 e 14 Cost., le ispezioni e le perquisizioni personali e domiciliari possono essere, infatti, disposte solo con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». A tale principio può derogarsi unicamente «[i]n casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria (da intendere, secondo il rimettente, come convalida motivata), in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».

Nella specie, le perquisizioni erano state eseguite in assenza di una situazione di flagranza di reato apprezzabile ex ante – richiesta in via generale dall’art. 352 cod. proc. pen. come condizione legittimante l’intervento eccezionale delle forze di polizia – sulla base di una segnalazione della persona offesa (ordinanza iscritta al n. 16 r. o. del 2022), ovvero di notizie fornite da fonti confidenziali, delle quali la legge processuale prevede in via generale l’inutilizzabilità, in quanto non verificabili (ordinanze iscritte ai numeri 17 e 18 r. o. del 2022).

Era mancato, altresì, un valido provvedimento, antecedente o successivo, dell’autorità giudiziaria. In un caso (ordinanza iscritta al n. 16 r. o. del 2022), infatti, la perquisizione era stata autorizzata oralmente dal pubblico ministero, fuori dei casi in cui la legge consente l’autorizzazione in forma orale, e successivamente convalidata, ma con motivazione incongrua, idonea a giustificare, semmai, solamente il sequestro. In un altro caso (ordinanza iscritta al n. 17 r. o. del 2022), la perquisizione era stata autorizzata dal pubblico ministero solo oralmente, ai sensi dell’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), senza peraltro che ne constassero le ragioni. In un altro caso ancora (ordinanza iscritta al n. 18 r. o. del 2022), la perquisizione era stata convalidata successivamente, ma con motivazione che si limitava ad affermare apoditticamente la sussistenza dei presupposti per la perquisizione e il sequestro.

1.2.– Secondo il rimettente, gli esiti probatori della perquisizione eseguita dalla polizia giudiziaria fuori dei casi indicati dalla legge, o in difetto di una convalida che abbia riscontrato l’effettiva ricorrenza di tali casi, dovrebbero restare inutilizzabili. Rispetto alla perquisizione, infatti, la perdita di efficacia prevista dagli artt. 13 e 14 Cost. non potrebbe attenere ad altro che ai risultati di natura probatoria, posto che gli effetti limitativi della libertà personale e domiciliare, insiti nella perquisizione stessa, si esauriscono con il compimento dell’atto.

Tale esito interpretativo risulterebbe, tuttavia, contrastato da un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, originato dalla sentenza delle sezioni unite penali della Corte di cassazione 27 marzo-6 maggio 1996, n. 5021. Le Sezioni unite hanno ritenuto, infatti, valido il sequestro conseguente a una perquisizione eseguita fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge, allorché abbia ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato, posto che, in tal caso, il sequestro costituisce un atto dovuto ai sensi dell’art. 253, comma 1, cod. proc. pen., che non potrebbe essere omesso dalla polizia giudiziaria solo a causa dell’abuso compiuto. Correlativamente, gli agenti di polizia giudiziaria potrebbero anche testimoniare sugli esiti della perquisizione.

1.3.– Il giudice a quo ricorda di aver già sollevato più volte questioni di legittimità costituzionale del diritto vivente formatosi attorno all’art. 191 cod. proc. pen., denunciandone il contrasto con una pluralità di parametri costituzionali.

Le questioni erano state, tuttavia, «respinte» da questa Corte dapprima con la sentenza n. 219 del 2019 e poi con la sentenza n. 252 del 2020, sul rilievo che il loro accoglimento avrebbe richiesto una pronuncia «fortemente “manipolativa”», dato che l’ordinamento italiano non recepisce la figura dell’«inutilizzabilità derivata», espressiva della cosiddetta «teoria dei frutti dell’albero avvelenato».

1.4.– Con le odierne ordinanze di rimessione, emesse nell’ambito di tre dei giudizi che avevano dato luogo alle ordinanze su cui questa Corte si è pronunciata con la sentenza n. 252 del 2020, il Tribunale salentino ritiene, tuttavia, di dover tornare a prospettare i dubbi di legittimità costituzionale, con il supporto di ulteriori argomenti.

Ad avviso del giudice a quo, l’art. 191 cod. proc. pen., nella lettura offertane dal diritto vivente, si porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost. proprio perché non accoglie la «teoria dei frutti dell’albero avvelenato»: teoria che, oltre a risultare implicitamente recepita dalle norme costituzionali evocate, non sarebbe affatto estranea al sistema processuale vigente, conoscendo almeno una esplicita applicazione nell’art. 103 cod. proc. pen., in tema di garanzie di libertà del difensore.

Tale disposizione, dopo aver previsto una serie di prescrizioni da osservare per l’esecuzione di ispezioni e perquisizioni negli uffici dei difensori, stabilisce espressamente, al comma 7, che i «risultati» degli atti eseguiti in violazione di tali prescrizioni «non possono essere utilizzati»: il che dimostrerebbe come l’inutilizzabilità “derivata” non sia un istituto ignoto al nostro ordinamento giuridico e come essa possa bene fungere, quindi, da «modello» ai fini dell’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen.

1.5.– La disciplina recata dall’art. 103 cod. proc. pen. viene evocata dal rimettente anche quale tertium comparationis, a sostegno della censura di violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento.

Il citato art. 103 cod. proc. pen. mira, infatti, a garantire la libertà e la riservatezza del rapporto tra difensore e imputato, in quanto condizioni necessarie per l’effettività del diritto di difesa. Risulterebbe, peraltro, irrazionale che il sistema processuale assicuri a un diritto – quale quello di difesa – che, se pure di assoluta importanza, ha natura strumentale e servente rispetto alla tutela della libertà personale e domiciliare, una tutela più intensa ed efficace di quella apprestata rispetto ad atti illegali direttamente lesivi di quei diritti fondamentali.

1.6.– Il rilevato profilo di contrasto con l’art. 3 Cost. si aggiungerebbe a quelli già denunciati con le precedenti ordinanze di rimessione, e che il rimettente ripropone.

Il diritto vivente censurato prefigurerebbe, per gli atti considerati, una disciplina meno favorevole anche di quella stabilita dall’art. 271 cod. proc. pen., che prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni illegittime, benché queste ultime incidano su un diritto costituzionale (la segretezza della corrispondenza) di minor rilievo rispetto alla libertà personale e domiciliare.

Esso verrebbe a creare, altresì, un sistema che, «in maniera del tutto paradossale», considera «inefficaci ab origine le leggi incostituzionali», ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in danno dei diritti inviolabili dei cittadini, rendendo in tal modo prevalente su questi ultimi l’azione illegale degli organi statali finalizzata alla repressione dei reati, con conseguente violazione anche dell’art. 97, secondo comma, Cost.

1.7.– Risulterebbe violato pure l’art. 2 Cost., che impone alla Repubblica non solo di riconoscere, ma anche di garantire i diritti inviolabili della persona, postulando, con ciò, l’effettività delle garanzie.

Non presterebbe, infatti, adeguata protezione una disciplina che consenta a una attività compiuta in violazione di tali diritti di produrre effetti giuridici favorevoli all’autore della violazione e in danno di chi l’ha subita.

1.8.– Apparirebbero compromessi, ancora, il diritto a un giusto processo (artt. 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU) e il diritto di difesa (art. 24 Cost.).

Il vulnus risulterebbe particolarmente evidente ove si ammetta l’utilizzabilità degli esiti probatori di perquisizioni effettuate sulla base di elementi non suscettibili di verifica, per non esserne indicata la fonte, quali notizie confidenziali o denunce anonime. In questo modo, l’imputato verrebbe, infatti, privato della possibilità di valersi degli elementi difensivi derivanti dalla conoscenza del soggetto che ha fornito le notizie, che potrebbe essergli noto, ad esempio, come persona mossa da astio nei suoi confronti o in grado, comunque sia, di accedere nella sua abitazione per lasciarvi gli oggetti compromettenti.

1.9.– Alla luce della costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il principio di effettività è proprio, peraltro, anche della garanzia prevista dall’art. 8 CEDU, che vieta le indebite interferenze nella vita privata e nel domicilio, con conseguente ulteriore violazione dell’art. 117 Cost.

Al riguardo, il rimettente richiama, oltre alla sentenza 27 settembre 2018, Brazzi contro Italia, già evocata in alcune delle precedenti ordinanze di rimessione, anche la più recente sentenza 16 febbraio 2021, Budak contro Turchia, che, nel caso di una perquisizione eseguita dalla polizia giudiziaria senza la presenza di due testimoni, prescritta nella specie dal codice di procedura penale turco, ha ritenuto la procedura illegale e violato l’art. 8 CEDU, non solo perché la perquisizione non era stata eseguita nelle forme e nei casi previsti dalla legge nazionale, ma anche perché i giudici nazionali avevano ignorato, non dando loro adeguata risposta, le doglianze dell’imputato, che aveva ricordato come, tanto la Costituzione, quanto il codice di procedura penale turco, vietassero di utilizzare le prove raccolte nel corso di perquisizioni illegali.

1.10.– Prendendo spunto da quest’ultima pronuncia, nelle ordinanze iscritte ai numeri 16 e 18 r. o. del 2022 il rimettente si interroga sulle conseguenze della convalida della perquisizione con provvedimento «inadeguato», perché privo – come nei casi oggetto dei giudizi a quibus – di congrua motivazione circa gli elementi legittimanti l’iniziativa della polizia giudiziaria.

Rileva il giudice a quo che, sebbene l’art. 13 Cost. riconnetta la perdita di efficacia degli atti di polizia giudiziaria alla mancata convalida da parte dell’autorità giudiziaria entro un determinato termine, la reale causa dell’inefficacia risiederebbe nella circostanza che l’atto è stato compiuto dalle forze di polizia fuori dei casi in cui la legge lo consente, dato che è per tale ragione che la convalida difetterà. La convalida non svolgerebbe, quindi, una funzione «sanante» a discrezione dell’autorità giudiziaria, ma postulerebbe una concreta verifica in ordine alla ricorrenza dei presupposti per l’attività compiuta dalla polizia giudiziaria di propria iniziativa.

La ratio della norma costituzionale sarebbe di conseguenza frustrata se, ad evitare la perdita di efficacia dell’atto illegale, fosse sufficiente un provvedimento di convalida del tutto immotivato in ordine alla situazione legittimante la perquisizione. Di tale avviso si sarebbe mostrata anche questa Corte con la sentenza n. 252 del 2020, nell’accogliere la questione di legittimità costituzionale – sollevata dallo stesso Tribunale rimettente – dell’art. 103 del d.P.R. n. 309 del 1990, censurato nella parte in cui consentiva al pubblico ministero di autorizzare verbalmente le perquisizioni finalizzate alla prevenzione e alla repressione del traffico illecito di stupefacenti, senza dover documentare successivamente le ragioni fondanti il provvedimento.

Per altro verso, poi, sebbene le nullità dei provvedimenti del giudice per difetto di motivazione siano generalmente rilevabili solo su eccezione di parte, nell’ipotesi in esame una nullità solo relativa non garantirebbe adeguatamente i diritti fondamentali incisi. Le nullità relative debbono essere, infatti, eccepite entro tempi e con cadenze tali da richiedere alla parte una «notevole diligenza» e che si giustificherebbero solo con la natura «minore» di tali nullità, perché riguardanti violazioni di scarsa importanza.

Ritenere che non possa essere rilevata d’ufficio la nullità, per difetto di motivazione del provvedimento con cui l’autorità giudiziaria «sani» un atto compiuto in violazione di un diritto fondamentale del cittadino, introdurrebbe, d’altro canto, un trattamento illogicamente deteriore rispetto a quello previsto per l’omessa citazione dell’imputato, che determina una nullità assoluta, pur incidendo sull’esercizio di un diritto, quale quello di difesa, del quale si è già sottolineata la natura «servente» rispetto alla tutela dei diritti fondamentali.

Le esposte considerazioni inducono quindi il giudice a quo a dubitare, in riferimento agli artt. 2, 13, 14, 111, sesto comma, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 352 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto di convalida della perquisizione debba essere motivato; nonché dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che la nullità del decreto di convalida della perquisizione sia assoluta e rientri tra quelle considerate dall’art. 179, comma 2, cod. proc. pen.

Con riguardo alle questioni aventi ad oggetto l’art. 352 cod. proc. pen., il rimettente rileva che la necessità della motivazione del decreto di convalida è stata ritenuta da questa Corte con la citata sentenza n. 252 del 2020, ma solo nella parte motiva della pronuncia e non nel dispositivo: il che potrebbe «dar luogo in futuro ad incertezze applicative».

1.11.– L’ordinanza iscritta al n. 17 r. o. del 2022 si pone analoghi interrogativi con riguardo all’ipotesi in cui – come nel giudizio a quo – la convalida della perquisizione manchi, in particolare per il difetto dei relativi presupposti.

Il rimettente perviene anche qui alla conclusione che ammettere che la polizia giudiziaria possa procedere a perquisizione fuori dei casi previsti dalla legge, sulla base di elementi vaghi e perciò non verificabili dall’autorità giudiziaria, con conseguente mancata convalida dell’atto, senza però che ne sortiscano effetti sui risultati della perquisizione, comporterebbe l’aggiramento delle cautele che la Costituzione ha previsto a garanzia dell’effettività del controllo sull’operato delle forze di polizia.

Su tali premesse, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 13 e 14 Cost., dell’art. 352 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui il pubblico ministero non convalidi la perquisizione nei termini di legge, tutti i risultati probatori della stessa divengano inutilizzabili, «anche in termini di “inutilizzabilità derivata”».

2.– È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili.

2.1.– Con riguardo alle questioni sollevate dall’ordinanza iscritta al n. 16 r. o. del 2022, la difesa dell’interveniente rileva preliminarmente che l’ordinanza di rimessione omette di riportare il capo d’imputazione e di indicare la norma penale che si assume violata dagli imputati, il che già di per sé costituirebbe causa di inammissibilità.

2.2.– L’Avvocatura dello Stato osserva, poi, come il nucleo centrale delle questioni aventi ad oggetto l’art. 191 cod. proc. pen., sollevate da tutte le ordinanze, riproduca, nei tratti essenziali, quello delle questioni già sollevate dal medesimo Tribunale di Lecce nell’ambito degli stessi procedimenti con ordinanze del 5 luglio 2018, del 1° ottobre 2018 e del 13 dicembre 2018. Su tali questioni, prospettate anche con ulteriori ordinanze di contenuto in larga parte analogo, emesse sempre dal medesimo giudice, questa Corte si è pronunciata con la sentenza n. 252 del 2020, dichiarandone la manifesta inammissibilità, perché volte a conseguire una pronuncia «fortemente “manipolativa”» in materia rimessa alla discrezionalità del legislatore: ciò sulla falsariga di quanto già affermato nella precedente sentenza n. 219 del 2019, resa a seguito di altre due ordinanze dello stesso Tribunale salentino risalenti al 2017.

Contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, le odierne questioni non presenterebbero alcun carattere di novità rispetto a quelle già scrutinate.

Non potrebbe, in particolare, considerarsi argomento nuovo il riferimento alla disciplina delle perquisizioni da eseguire negli uffici dei difensori, di cui all’art. 103 cod. proc. pen. Infatti, già nelle ordinanze di rimessione del 2017 il giudice a quo aveva dedotto che il diritto vivente formatosi a proposito dell’art. 191 cod. proc. pen. avrebbe determinato una ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’ipotesi considerata dall’art. 271 cod. proc. pen., che prevede l’inutilizzabilità delle intercettazioni eseguite dalla polizia giudiziaria in assenza di decreto motivato dell’autorità giudiziaria. Ma, se – come si legge nelle odierne ordinanze di rimessione – l’art. 271 cod. proc. pen. ha «la medesima ratio dell’art. 191 c.p.p. e […] dell’art. 103 c.p.p.», non sarebbe sostenibile che tale ultima disposizione non fosse già stata illo tempore dedotta quale tertium comparationis.

Tale assorbente rilievo renderebbe superflua ogni ulteriore considerazione riguardo al fatto che, nel caso previsto dal citato art. 103 cod. proc. pen., l’eventuale illegittimità della perquisizione risulterebbe prima facie di maggiore portata lesiva dei diritti fondamentali, stante la sua incidenza negativa, tanto sulla libertà personale e domiciliare, quanto sull’altrettanto inviolabile diritto di difesa: diritto che il rimettente degrada a mero «diritto strumentale», ma che rappresenta, in realtà, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, un «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale italiano.

2.3.– Quanto, poi, alle questioni aventi ad oggetto l’art. 352 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto di convalida della perquisizione debba essere motivato, le stesse – secondo l’Avvocatura dello Stato – non sarebbero rilevanti, in quanto dalle ordinanze di rimessione risulta che nei casi di specie la convalida della perquisizione è stata motivata, sia pure in modo reputato «incongruo» dal giudice rimettente.

La citata sentenza n. 252 del 2020 ha fornito, in ogni caso, un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, affermando che, pur nel silenzio dell’art. 352, comma 4, cod. proc. pen., la perquisizione eseguita di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria deve, secondo l’opinione prevalente, essere convalidata dal pubblico ministero con decreto motivato, proprio per un’esigenza di rispetto degli artt. 13 e 14 Cost.

2.4.– Con riguardo, infine, alle questioni concernenti l’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che la nullità del decreto di convalida della perquisizione sia assoluta, l’Avvocatura dello Stato rileva che la nullità è un vizio soggetto, come l’inutilizzabilità, ai paradigmi della tassatività e della legalità. Solo la legge può dunque stabilire, con norme di stretta interpretazione, stante la loro natura eccezionale, quali siano le ipotesi di nullità, in funzione di scelte di «politica processuale» affidate al legislatore, nei limiti della ragionevolezza.

3.– Nel giudizio introdotto dall’ordinanza iscritta al n. 16 r. o. del 2022, l’Unione delle camere penali italiane (UCPI) ha depositato un’opinione scritta quale amicus curiae, ammessa con decreto presidenziale dell’8 luglio 2022, di segno adesivo alle censure del giudice a quo, ma con la prospettazione di un esito diverso da quello auspicato da quest’ultimo.

Premesso che il richiamo all’art. 103, comma 7, cod. proc. pen. in chiave di tertium comparationis conferirebbe alle questioni caratteri di novità, tali da escludere che si tratti di mera riproposizione di quesiti già risolti da questa Corte, l’UCPI assume che sarebbe possibile decidere nel merito le questioni stesse senza effettuare interventi manipolativi sull’art. 191 cod. proc. pen. che spettano solo al legislatore, ma semplicemente riconoscendo – in particolare alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, rilevante ai fini del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost. – l’esistenza di un comando costituzionale minimo: quello, cioè, di consentire al giudice di rimuovere la prova acquisita a seguito della violazione di un diritto costituzionale o convenzionale, quando ciò risulti necessario per una tutela effettiva del diritto leso, fermo restando, sopra da tale soglia, il potere del legislatore di compiere le scelte ritenute più opportune nel modulare l’inutilizzabilità indiretta.

Considerato in diritto

1.– Con tre ordinanze di tenore per larga parte analogo, il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale di tre distinte disposizioni del codice di procedura penale.

1.1.– Il giudice a quo censura, in primo luogo, l’art. 191 cod. proc. pen., nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente – non prevede l’inutilizzabilità degli esiti probatori delle perquisizioni e delle ispezioni, domiciliari e personali, compiute dalla polizia giudiziaria fuori dei casi previsti dalla legge, compresi, fra tali esiti, il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato e la possibilità di deporre sui predetti atti e sui loro risultati. Nelle ordinanze iscritte ai numeri 17 e 18 del registro ordinanze 2022, il rimettente lamenta, altresì, che l’inutilizzabilità non colpisca anche gli esiti probatori delle perquisizioni e delle ispezioni operate dalla polizia giudiziaria, fuori del caso di flagranza di reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzate o convalidate dal pubblico ministero, ovvero – secondo la sola ordinanza iscritta al n. 18 r. o. del 2022 – convalidate dal pubblico ministero senza indicare gli elementi utilizzabili che le legittimavano, o – secondo la sola ordinanza iscritta al n. 17 r. o. del 2022 – non convalidate dal pubblico ministero per qualsiasi ragione.

Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe anzitutto gli artt. 13 e 14 Cost., in forza dei quali l’autorità di pubblica sicurezza può procedere a ispezioni e a perquisizioni, personali e domiciliari, solo in casi eccezionali di necessità e urgenza indicati tassativamente dalla legge, mediante atti soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria (da intendere come convalida motivata), in mancanza della quale essi «restano privi di ogni efficacia»: perdita di efficacia che implicherebbe necessariamente l’inutilizzabilità dei loro risultati sul piano probatorio, anche perché solo in questo modo si tutelerebbero efficacemente i diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare, disincentivando la loro violazione ad opera della polizia giudiziaria per finalità di ricerca della prova.

Risulterebbe, altresì, violato l’art. 3 Cost., sotto un triplice profilo.

In primo luogo, per l’ingiustificata disparità di trattamento delle ipotesi in questione, rispetto alla fattispecie disciplinata dall’art. 103, comma 7, cod. proc. pen., che prevede l’inutilizzabilità dei «risultati» delle ispezioni e delle perquisizioni eseguite negli uffici dei difensori in violazione delle disposizioni dei commi precedenti dello stesso articolo: disposizioni poste a tutela dell’effettività del diritto di difesa, che ha una funzione solo strumentale e «servente» rispetto ai diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare, direttamente lesi dalle ispezioni e dalle perquisizioni illegittime.

In secondo luogo, per l’ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’ipotesi regolata dall’art. 271 cod. proc. pen., che prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni illegittime, benché queste ultime incidano su un diritto costituzionale – la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione – di minor rilievo rispetto alla libertà personale e domiciliare.

In terzo luogo e da ultimo, per contrasto con il principio di ragionevolezza, venendosi a teorizzare un sistema che considera «inefficaci ab origine le leggi incostituzionali», ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino.

Sarebbe vulnerato anche l’art. 2 Cost., non risultando predisposte effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo, potendo le forze di polizia contare sulla potenziale «fruttuosità processuale» di qualsiasi atto di perquisizione vadano a compiere, legale o illegale che sia; così come apparirebbero violati gli artt. 3 e 97, terzo (recte: secondo) comma, Cost., venendo resa prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti inviolabili dei consociati.

Il rimettente deduce, ancora, la violazione del diritto a un giusto processo, garantito dagli artt. 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, il quale esige che l’imputato possa verificare la genuinità degli elementi di prova addotti contro di lui: possibilità inficiata dal diritto vivente formatosi sull’art. 191 cod. proc. pen., particolarmente quando la polizia giudiziaria abbia posto, a base della perquisizione o dell’ispezione, elementi non verificabili, quali le notizie apprese tramite fonti confidenziali o denunce anonime.

Di qui anche la compromissione del diritto di difesa (art. 24 Cost.).

Viene prospettata, infine, la violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, giacché verrebbero a mancare efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio.

1.2.– Le ordinanze iscritte ai numeri 16 e 18 r. o. del 2022 censurano, in secondo luogo, l’art. 352 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto di convalida della perquisizione eseguita d’iniziativa dalla polizia giudiziaria debba essere motivato, deducendo la violazione degli artt. 2, 13, 14 e 111, sesto comma, Cost. Essa deriverebbe dal fatto che nel disegno costituzionale la convalida esige un controllo effettivo dell’autorità giudiziaria sulla sussistenza dei presupposti legittimanti la perquisizione, onde la ratio della garanzia costituzionale rimarrebbe frustrata se ad evitare la perdita di efficacia dell’atto illegale bastasse un provvedimento privo di motivazione.

1.3.– Le medesime ordinanze dubitano ulteriormente, in riferimento agli stessi parametri, della legittimità costituzionale dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che la nullità (per difetto di motivazione) del decreto di convalida della perquisizione sia assoluta e rientri tra quelle considerate dall’art. 179, comma 2, cod. proc. pen.

Secondo il rimettente, una nullità solo relativa, rilevabile esclusivamente su eccezione di parte nel rispetto di «tempi e cadenze» tali da richiedere all’interessato una «notevole diligenza», non garantirebbe adeguatamente i diritti fondamentali incisi.

1.4.– L’ordinanza iscritta al n. 17 del r. o. 2022 censura invece l’art. 352 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui il pubblico ministero non convalidi la perquisizione nei termini di legge, tutti i risultati probatori della stessa divengano inutilizzabili, «anche in termini di “inutilizzabilità derivata”».

A parere del giudice a quo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 13 e 14 Cost., giacché ammettere che la polizia giudiziaria possa procedere a perquisizione fuori dei casi previsti dalla legge, sulla base di elementi vaghi e perciò non verificabili dall’autorità giudiziaria, con conseguente mancata convalida dell’atto, senza però che ne sortiscano effetti sui risultati della perquisizione, comporterebbe l’aggiramento delle cautele che la Costituzione ha previsto a garanzia dell’effettività del controllo sull’operato delle forze di polizia.

2.– Le ordinanze sollevano questioni in larga misura analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3.– In via preliminare, occorre rilevare che il Tribunale di Lecce aveva già sollevato similari questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen. con nove precedenti ordinanze di rimessione.

Le questioni sono state dichiarate da questa Corte inammissibili (sentenza n. 219 del 2019) e indi manifestamente inammissibili (sentenza n. 252 del 2020). Una ulteriore declaratoria di manifesta inammissibilità è sopravvenuta alla proposizione degli odierni incidenti (ordinanza n. 116 del 2022).

Nelle decisioni ora richiamate, questa Corte ha rilevato che le questioni miravano a trasferire nella disciplina dell’inutilizzabilità delle prove un regime di invalidità “derivata” che il sistema prevede, in via generale, solo in rapporto alla figura, ben distinta, della nullità (art. 185, comma 1, cod. proc. pen.): richiedendo, con ciò, una pronuncia «fortemente “manipolativa”» in una materia rimessa alla discrezionalità del legislatore (quale quella processuale) e con caratteristiche di eccezionalità (quale quella dei divieti probatori e delle clausole di inutilizzabilità processuale).

In tre dei giudizi nei quali erano state emesse le ordinanze di rimessione su cui si è pronunciata la sentenza n. 252 del 2020, il giudice a quo è tornato a censurare, in parte qua, con le ordinanze oggi in esame, il citato art. 191 cod. proc. pen., assieme ad altre disposizioni. Si tratta, dunque, in tutti e tre i casi, di questioni riproposte nello stesso grado di giudizio, dopo una pronuncia di questa Corte: il che genera un problema preliminare di ammissibilità delle questioni stesse alla luce del disposto dell’art. 137, ultimo comma, Cost.

3.1.– Il giudice a quo adduce, come elemento nuovo, il richiamo alla disciplina delle «[g]aranzie di libertà del difensore» racchiusa nell’art. 103 cod. proc. pen., ove in particolare si prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle ispezioni e delle perquisizioni eseguite negli uffici dei difensori in violazione delle speciali cautele stabilite dalla disposizione richiamata (comma 7).

L’argomento viene speso dal rimettente in una duplice prospettiva.

Da un lato, per dimostrare che la figura dell’inutilizzabilità “derivata” è già prevista dall’ordinamento e che, pertanto – contrariamente a quanto ritenuto da questa Corte –, ben potrebbe essere estesa, tramite declaratoria di illegittimità costituzionale, alla generalità delle ispezioni e perquisizioni di polizia giudiziaria illegittime.

Da un altro lato, l’art. 103 cod. proc. pen. è richiamato come argomento a sostegno di una censura aggiuntiva rispetto a quelle precedentemente formulate – censure che il rimettente ripropone, per il resto, pressoché integralmente –: vale a dire la violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla fattispecie disciplinata dalla citata disposizione del codice di rito.

Il giudice a quo evoca, inoltre, un parametro non richiamato dalle precedenti ordinanze emesse negli stessi giudizi (il diritto al giusto processo, sancito dagli artt. 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU).

Coinvolge, infine, nello scrutinio altre due disposizioni, facendole oggetto di distinte censure (gli artt. 125, comma 3, e 352 cod. proc. pen.).

3.2.– Ciò posto, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato in modo costante due principi.

Il giudice a quo non può riproporre, nel medesimo grado di giudizio, una questione già dichiarata non fondata, in quanto una simile iniziativa si porrebbe in contrasto con il disposto dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost., secondo cui contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione. Il rimettente può rivolgersi novamente alla Corte, dopo la declaratoria di non fondatezza, solo ove proponga una questione diversa dalla precedente in rapporto agli elementi che la identificano: ossia «norme censurate, profili di incostituzionalità dedotti e argomentazioni svolte a sostegno della ritenuta incostituzionalità» (sentenza n. 66 del 2019, che richiama le sentenze n. 113 del 2011 e n. 225 del 1994; ordinanza n. 183 del 2014).

Di contro, il giudice a quo è abilitato a sollevare una seconda volta la medesima questione nello stesso giudizio quando questa Corte abbia emesso una pronuncia a carattere non decisorio, fondata su motivi rimovibili dal rimettente, dato che, in tal caso, la riproposizione non collide con la ricordata previsione dell’art. 137, ultimo comma, Cost. Ciò, alla ovvia condizione che il giudice a quo abbia rimosso il vizio che aveva impedito l’esame di merito della questione (ex plurimis, sentenze n. 115 del 2019, n. 252 del 2012 e n. 189 del 2001; ordinanze n. 371 del 2004 e n. 399 del 2002).

3.3.– Questo secondo principio non può trovare applicazione nel caso oggi in esame, per l’assorbente ragione che la pronuncia sulle precedenti questioni sollevate dal Tribunale salentino negli stessi giudizi, ancorché di inammissibilità, ha carattere incontestabilmente decisorio. Essa si basa, infatti, sulla riscontrata impraticabilità dell’intervento “manipolativo” richiesto dal giudice a quo, in quanto introdurre figure di inutilizzabilità “derivata” e stabilirne i casi è compito rimesso alla discrezionalità del legislatore.

Ne deriva che, analogamente a quanto avviene a fronte di una dichiarazione di non fondatezza, le odierne questioni possono essere considerate proponibili solo nella misura in cui si connotino come nuove nelle loro componenti (norma censurata, profili di incostituzionalità dedotti, argomentazioni a sostegno della ritenuta illegittimità costituzionale).

A tale condizione rispondono senz’altro le questioni aventi ad oggetto gli artt. 125, comma 3, e 352 cod. proc. pen.: le norme censurate sono diverse e ad esse sono mosse distinte censure. Nell’ambito delle questioni relative all’art. 191 cod. proc. pen., il requisito è soddisfatto dalla questione sollevata in riferimento al parametro del giusto processo (non evocato dalle precedenti ordinanze), nonché da quella proposta in riferimento al principio di eguaglianza, sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi disciplinata dall’art. 103 cod. proc. pen. (il parametro era già stato invocato, ma sotto altri profili). A questo riguardo, non può essere recepita l’eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato, che nega carattere di novità al riferimento alla citata disposizione del codice di rito, sul rilievo che essa risponde alla medesima logica di altra disposizione già richiamata dal rimettente nelle precedenti occasioni (l’art. 271 cod. proc. pen.). Tale valutazione si colloca, infatti, in una fase successiva a quella di verifica della proponibilità della questione.

Tutte le altre questioni concernenti l’art. 191 cod. proc. pen. risultano, per converso, identiche alle precedenti sotto ogni aspetto: la norma censurata è la stessa; i parametri sono i medesimi; le argomentazioni a sostegno della ritenuta illegittimità costituzionale ripetono – per larghi tratti anche testualmente – quelle svolte nelle precedenti ordinanze emesse negli stessi giudizi. Per quanto attiene, in particolare, alla censura di violazione dell’art. 117 Cost. in relazione all’art. 8 CEDU, non basta a rendere nuova la questione il richiamo a talune pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo non citate da dette ordinanze (in specie, la sentenza 27 settembre 2018, Brazzi contro Italia, e la sentenza 16 febbraio 2021, Budak contro Turchia), le quali, per la parte pertinente a tale parametro, non enunciano principi innovativi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, cui il rimettente aveva già fatto riferimento in precedenza.

A connotare come nuovo il complesso di questioni in parola non può valere neppure il mero richiamo alla disciplina delle ispezioni e delle perquisizioni negli uffici dei difensori. Rispetto alle questioni dianzi indicate, infatti, tale riferimento rappresenta, non già un’argomentazione a sostegno della ritenuta illegittimità costituzionale, ma una critica al ragionamento svolto da questa Corte per dichiarare inammissibili le questioni precedenti: in pratica, si “rimprovera” alla Corte di non aver tenuto conto, nel pervenire a tale conclusione, della presenza nel sistema di una previsione espressa di inutilizzabilità “derivata”, quale quella contemplata dal citato art. 103 cod. proc. pen.

Le questioni in discorso debbono considerarsi, di conseguenza, inammissibili “ante portas”, in quanto la loro riproposizione si traduce in una non consentita impugnazione della sentenza n. 252 del 2020.

4.– Quanto alle questioni non precluse, l’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità di quelle sollevate dall’ordinanza iscritta al n. 16 r. o. del 2022 per insufficiente descrizione della fattispecie concreta, avendo il rimettente omesso di riportare il capo di imputazione e di indicare la norma penale che si assume violata dagli imputati.

L’eccezione non è fondata.

Di là dalle omissioni denunciate dall’Avvocatura, dall’ordinanza di rimessione emerge in modo inequivoco che, nel caso di specie, si procede per furto in abitazione e che la prova cardine a carico degli imputati è costituita dalla refurtiva rinvenuta nell’abitazione di questi ultimi a seguito di una perquisizione operata dalla polizia giudiziaria, che il rimettente assume illegittima. Tanto basta a consentire la verifica della rilevanza delle questioni da parte di questa Corte.

5.– Le questioni relative all’art. 191 cod. proc. pen. non precluse sono, peraltro, inammissibili per la medesima ragione sostanziale già posta in evidenza da questa Corte nelle proprie precedenti pronunce.

5.1.– Quanto all’asserita violazione dell’art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla fattispecie regolata dall’art. 103 cod. proc. pen., vale osservare che il giudice a quo aveva già in precedenza richiamato un’altra previsione espressa di inutilizzabilità “derivata” – quella contemplata dall’art. 271 cod. proc. pen., in tema di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o senza l’osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, cod. proc. pen. – formulando in relazione ad essa analoga censura di lesione del principio di eguaglianza (censura replicata, peraltro, anche oggi).

Nella sentenza n. 219 del 2019, questa Corte aveva, a propria volta, preso in esame una ulteriore ipotesi: quella delineata dal comma 2-bis dello stesso art. 191 cod. proc. pen., secondo cui le dichiarazioni e le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura «non sono comunque utilizzabili» (salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale).

Ciò non ha impedito, tuttavia, di concludere nel senso dell’inammissibilità delle questioni. Questa Corte ha, infatti, rilevato come, «proprio in ragione delle peculiarità “funzionali” che caratterizzano il sistema delle inutilizzabilità e dei connessi divieti probatori, in ragione dei valori che mirano a preservare, esista una gamma “differenziata” di regole di esclusione, alle quali corrisponde un altrettanto differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono tutelare: il tutto, come è ovvio, in funzione di scelte di “politica processuale” che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare» (sentenza n. 219 del 2019).

L’osservazione è riferibile anche alla fattispecie disciplinata dall’art. 103 cod. proc. pen., rispetto alla quale, peraltro, è di immediata evidenza la ragione che ha indotto il legislatore a dettare regole più severe quanto all’inutilizzabilità dei risultati probatori ottenuti contra legem, connettendosi al fatto che le ispezioni e le perquisizioni eseguite presso gli uffici dei difensori incidono non soltanto sull’inviolabilità del domicilio, ma anche sull’inviolabilità del diritto di difesa: diritto che – come nota anche l’Avvocatura dello Stato – di là dalla natura “servente” che il rimettente gli attribuisce, si erge a «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale (sentenze n. 18 del 2022, n. 238 del 2014 e n. 232 del 1989).

5.2.– Riguardo, poi, all’asserita lesione del diritto al giusto processo (artt. 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU), il parametro è nuovo, bensì, rispetto a quelli evocati dal rimettente nelle precedenti ordinanze emesse nell’ambito degli stessi giudizi principali. Ma il giudice a quo lo aveva già richiamato – sia pure in relazione al solo referente costituzionale interno (art. 111 Cost.) – in un’altra ordinanza successiva a queste (l’ordinanza iscritta al n. 37 r. o. del 2021): e ciò non è valso ad evitare che fosse ribadita la declaratoria di inammissibilità (ordinanza iscritta al n. 116 r. o. del 2022).

Appare, in specie, riproponibile, anche nell’odierno frangente, il rilievo formulato nell’occasione, secondo cui la censura in questione si presenta come meramente rafforzativa della denuncia, già operata nelle altre precedenti ordinanze, della violazione degli artt. 3 e 24 Cost. connessa alla «ridotta verificabilità» degli elementi sulla cui base la polizia giudiziaria ha proceduto alla perquisizione, che si assume derivare dal diritto vivente censurato.

Va aggiunto che, a questo proposito, non può essere esaminata la tesi che si ricava dall’opinione scritta depositata, in veste di amicus curiae, dall’UCPI, secondo la quale, alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’art. 191 cod. proc. pen. dovrebbe essere ritenuto costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente al giudice di estromettere dal processo le prove acquisite a seguito della violazione di un diritto costituzionale o convenzionale, quando ciò risulti necessario per una tutela effettiva del diritto leso. In questo modo, l’UCPI prospetta una questione sostanzialmente diversa da quella sollevata dal giudice a quo (che segna i confini del thema decidendum), intesa a introdurre un inedito vizio di “inutilizzabilità derivata discrezionale”: ciò, a prescindere da ogni rilievo circa l’effettiva possibilità di ritenere imposto dalla giurisprudenza della Corte EDU un simile intervento e la genericità del criterio sulla cui base il giudice dovrebbe decidere sull’utilizzabilità della prova.

6.– Inammissibili, per la medesima ragione, sono anche le questioni, sollevate dalla sola ordinanza iscritta al n. 17 r. o. del 2022, dell’art. 352 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, ove il pubblico ministero non convalidi la perquisizione nei termini di legge, tutti i risultati probatori della stessa divengano inutilizzabili.

Posto che – come lo stesso rimettente sottolinea – la mancata convalida dipende, di norma, dal fatto che la perquisizione è stata eseguita fuori dei casi previsti dalla legge, il giudice a quo viene a chiedere di nuovo, per altra via, quello che questa Corte ha già riscontrato di non poter fare: ossia introdurre una figura di inutilizzabilità “derivata”.

7.– Per quel che concerne le questioni – sollevate dalle ordinanze iscritte ai numeri 16 e 18 r. o. del 2022 – del medesimo art. 352 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il decreto del pubblico ministero che convalida la perquisizione debba essere motivato, l’Avvocatura dello Stato ne ha eccepito in via preliminare l’inammissibilità per difetto di rilevanza, giacché, nei casi di specie, per quanto risulta dalle ordinanze di rimessione, la convalida era stata motivata, sia pure in modo reputato dal rimettente incongruo, in quanto idoneo a giustificare, al più, soltanto il sequestro (ordinanza iscritta al n. 16 r. o. del 2022), ovvero apoditticamente affermativo della sussistenza dei presupposti della perquisizione (ordinanza iscritta al n. 18 r. o. del 2022).

L’eccezione non è fondata, tenuto conto del controllo esterno che questa Corte è chiamata ad effettuare sulla plausibilità della motivazione addotta dal giudice a quo in ordine al requisito della rilevanza (ex multis: sentenze n. 197 e n. 150 del 2022); plausibilità che risulta tanto più confortata dal consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità che considera mancante anche la motivazione solo “apparente”, in quanto basata su affermazioni di genere o meramente apodittiche, prive di efficacia dimostrativa (tra le molte, Corte di cassazione, sezione seconda penale, 13-22 novembre 2018, n. 52617; sezione terza penale, 7 luglio-2 settembre 2016, n. 36388).

Nel merito, le questioni non sono fondate, nei sensi di seguito indicati.

Nella sentenza n. 252 del 2020, questa Corte – nell’accogliere una distinta questione di legittimità costituzionale sollevata dal medesimo giudice rimettente, avente ad oggetto l’art. 103 del d.P.R. n. 309 del 1990 – ha già rilevato che, secondo l’opinione prevalente, malgrado il silenzio dell’art. 352, comma 4, cod. proc. pen. sul punto, la convalida della perquisizione deve essere motivata, sia per un’esigenza di rispetto degli artt. 13 e 14 Cost., sia per ragioni di coerenza sistematica.

In virtù del combinato disposto degli artt. 13, secondo comma, e 14, secondo comma, Cost., infatti, le perquisizioni domiciliari possono essere disposte solo «per atto motivato» dell’autorità giudiziaria: laddove la motivazione dell’atto è funzionale alla tutela della persona che subisce la perquisizione, la quale deve essere posta in grado di conoscere le ragioni – così da poterle, all’occorrenza, anche contestare – per le quali è stata disposta una limitazione del suo diritto alla libertà domiciliare.

Benché il riferimento all’«atto motivato» compaia solo nel secondo comma dell’art. 13 Cost., a proposito delle perquisizioni disposte ab origine dall’autorità giudiziaria, e non nel successivo terzo comma, a proposito della convalida dei «provvedimenti provvisori» adottati dall’autorità di pubblica sicurezza nei casi eccezionali di necessità e urgenza, tassativamente indicati dalla legge, l’esigenza della motivazione anche della convalida «deve ritenersi implicita nel dettato costituzionale, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dall’art. 13 Cost. Non avrebbe senso, in effetti, che la norma costituzionale richieda l’“atto motivato” quando l’autorità giudiziaria, titolare ordinaria del potere, operi di sua iniziativa, e non pure nell’ipotesi – più delicata – in cui sia chiamata a verificare se la polizia giudiziaria abbia agito nell’ambito dei casi eccezionali di necessità e urgenza nei quali la legge le consente di intervenire» (sentenza n. 252 del 2020).

Una esegesi letterale dell’art. 352, comma 4, cod. proc. pen., il quale non richiede esplicitamente la motivazione del decreto di convalida, determinerebbe, d’altro canto, «una ingiustificabile differenza di disciplina rispetto alla analoga ipotesi della convalida del sequestro, per la quale invece la motivazione è richiesta (art. 355, comma 2, cod. proc. pen.)» (sentenza n. 252 del 2020).

La norma censurata si presta, pertanto, a una interpretazione diversa da quella posta a base dei dubbi di legittimità prospettati e conforme a Costituzione.

Per completezza, va aggiunto che la motivazione del decreto di convalida della perquisizione risulta ora espressamente imposta dal nuovo testo dell’art. 352, comma 4, secondo periodo, cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 17, comma 1, lettera d), numero 1), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), non ancora entrato in vigore a seguito del differimento disposto dall’art. 6 del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali).

8.– Non fondate sono, infine, anche le questioni – sollevate dalle medesime ordinanze iscritte ai numeri 16 e 18 r. o. del 2022 – dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che la nullità del decreto di convalida della perquisizione (si sottintende, per difetto di motivazione) sia di natura assoluta.

Il rimettente muove dal corretto rilievo che, secondo la giurisprudenza di legittimità largamente prevalente, la nullità per difetto di motivazione dei provvedimenti del giudice (comprese le sentenze), prevista dalla norma denunciata, ha carattere relativo (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, 12 settembre 2018-4 febbraio 2019, n. 5457; sezione quinta penale, 8 febbraio 2005-25 marzo 2005, n. 11961).

A parere del giudice a quo, tuttavia, quando si discuta della convalida della perquisizione, una nullità di tipo relativo non tutelerebbe adeguatamente i diritti fondamentali incisi: ciò in quanto il vizio non potrebbe essere rilevato ex officio, ma solo su eccezione di parte, da proporre entro termini rigorosi, tali da richiedere al soggetto leso una «notevole diligenza».

Va, peraltro, osservato che, nella specie, si verte in tema di disciplina degli istituti processuali, materia nella quale il legislatore gode di ampia discrezionalità, nei limiti della non manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle soluzioni adottate (ex plurimis, sentenze n. 230 e n. 74 del 2022, n. 213 del 2021, n. 252, n. 95 e n. 79 del 2020; ordinanza n. 116 del 2022): il che vale anche quanto alla scelta del tipo di nullità con cui sanzionare una determinata violazione processuale.

Ciò posto, che la previsione di una nullità relativa non tuteli adeguatamente i diritti incisi dalla perquisizione illegittima sarebbe sostenibile solo qualora si dimostrasse che i termini per la proposizione delle eccezioni di nullità, previsti in via generale dall’art. 181 cod. proc. pen., rendono impossibile o eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa: conclusione alla quale neppure il rimettente perviene, limitandosi a parlare della necessità di una «notevole diligenza» da parte dell’interessato. La realtà è che, intervenendo di regola la perquisizione nella fase delle indagini preliminari, la parte interessata è posta in grado di eccepire l’eventuale nullità della convalida, potendolo fare fino alla chiusura della discussione nell’udienza preliminare o, se questa manchi, nella fase degli atti introduttivi del dibattimento, entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1, cod. proc. pen. (art. 181, comma 2, cod. proc. pen.).

Si aggiunga che, accogliendo le questioni, si perverrebbe all’incongruo risultato di attribuire all’obbligo di motivazione del decreto di convalida della perquisizione uno “statuto rafforzato” persino rispetto all’obbligo di motivazione delle sentenze.

Privo di pregio appare, altresì, l’assunto del rimettente, secondo cui escludere la nullità assoluta nel caso considerato significherebbe riservare a quest’ultimo un trattamento illogicamente deteriore rispetto a quello previsto per l’omessa citazione dell’imputato (inclusa tra le ipotesi di nullità assoluta dall’art. 179, comma 1, cod. proc. pen.). È evidente, infatti, che, diversamente dalla previsione di termini per la proposizione delle eccezioni di nullità, l’omessa citazione priva alla radice l’imputato della possibilità di difendersi davanti al giudice.

9.– In conclusione, tutte le questioni relative all’art. 191 cod. proc. pen., nonché quelle aventi ad oggetto l’art. 352 cod. proc. pen. sollevate dall’ordinanza iscritta al n. 17 r. o. del 2022 debbono essere dichiarate inammissibili per le varie ragioni in precedenza indicate; mentre debbono essere dichiarate non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni relative all’art. 352 cod. proc. pen. sollevate dalle ordinanze iscritte ai numeri 16 e 18 r. o. del 2022, e non fondate quelle concernenti l’art. 125, comma 3, cod. proc. pen. sollevate dalle medesime ordinanze.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, con le ordinanze indicate in epigrafe;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 352 cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 13 e 14 Cost., dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, con l’ordinanza iscritta al numero 17 del registro ordinanze 2022;

3) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 352 cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 13, 14 e 111, sesto comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, con le ordinanze iscritte ai numeri 16 e 18 del registro ordinanze 2022;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzione dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 2, 13, 14 e 111, sesto comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, con le ordinanze iscritte ai numeri 16 e 18 del registro ordinanze 2022.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 2022.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 9 dicembre 2022.